ROMA – Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n.11521/2022), che ha confermato quella emessa in precedenza dalla Corte di Appello di Catania, che a sua volta aveva ritenuto indenne da ogni motivo di censura quella emessa dal Tribunale della stessa città, ha confermato il principio che per la sussistenza del mobbing non è sufficiente il fatto, rimasto non controverso, nel caso preso in esame, dei continui trasferimenti ma è necessario che venga accertata la volontà persecutoria del datore di lavoro.
Il caso su cui si erano espressi i giudici catanesi riguardava una ipotesi di bossing, cioè il mobbing commesso dal diretto superiore nei confronti di un proprio sottoposto. Il lavoratore aveva denunciato al giudice del lavoro una serie di continui spostamenti da un settore all’altro dell’azienda che, a suo dire, avevano comportato una sostanziale dequalificazione per il medesimo.
L’istruttoria processuale svolta dal giudice di primo grado aveva messo in luce questi ripetuti trasferimenti ed anche la perdita di qualche prerogativa acquisita di fatto dal dipendente, così come è stata accertata l’innegabile tensione che gli spostamenti avevano generato, tensione che aveva fatto sì che i due protagonisti della vicenda, a causa del rancore accumulato, fossero passati, in una occasione, alle vie di fatto, per iniziativa del superiore.
Le prove confluite nel giudizio avevano però evidenziato che il lavoratore era transitato sempre per mansioni di pari importanza e gli spostamenti erano stati impartiti con ordini di servizio che riguardavano più dipendenti ed erano motivati da una qualche logica di dare maggiore efficienza alla organizzazione del lavoro. Il principio di diritto che ha visto i giudici dei tre gradi del giudizio in pieno accordo tra loro è risultato essere che è l’elemento psicologico, costituito dall’intento persecutorio a fare la differenza tra un caso di dequalificazione realizzata tramite trasferimenti, di dubbia legittimità, e quella di mobbing. Per aversi quest’ultima e certamente più dannosa fattispecie occorre la prova, che è tutta a carico del lavoratore, dello specifico intento persecutorio della parte datoriale.